Cremona 13 gennaio 1890 – Cremona 12 aprile 1959
Le origini contadine
Ernesto Primo Mazzolari nacque al Boschetto, una frazione di Cremona, il 13 gennaio 1890, figlio di Luigi e di Grazia Bolli. Il padre era un piccolo affittuario, che manteneva la famiglia con il lavoro dei campi. Primo (il nome Ernesto rimase solo nei documenti dell’anagrafe) fu il primogenito, poi vennero Colombina, Giuseppe (Peppino), Pierina, Giuseppina. Nel 1900, spinta dalla necessità di trovare migliori condizioni di lavoro e di vita, la famiglia Mazzolari si trasferì a Verolanuova, in provincia e diocesi di Brescia.
Due anni dopo, terminate le scuole elementari, Primo decise di entrare in seminario. Fu scelto, per la vicinanza dei parenti, il seminario di Cremona, città dove era allora vescovo mons. Geremia Bonomelli, uomo celebre per le sue idee cattolico-liberali, di conciliazione con il giovane Stato italiano.
La vita in seminario
Primo Mazzolari rimase nell’istituto cremonese fino al 1912, anno nel quale fu ordinato prete. Per l’occasione egli tornò in famiglia, a Verolanuova e ricevette l’ordine sacro dal vescovo di Brescia, mons. Gaggia, nella chiesa parrocchiale. Il decennio trascorso in seminario non fu privo di difficoltà, anche per via del carattere assai sensibile ed emotivo del giovane Primo. Non si può dimenticare che quelli erano i tempi della dura repressione antimodernista avviata da Pio X, che comportò nei seminari l’irrigidimento della disciplina, la cacciata dei professori ritenuti troppo innovativi e la chiusura ad ogni forma di dialogo con la cultura del momento. Anche Mazzolari dovette fare i conti con una seria crisi vocazionale, che riuscì a superare grazie all’illuminato aiuto del padre barnabita Pietro Gazzola, in precedenza allontanato da Milano proprio perché sospettato di indulgenze verso il modernismo. Lo stesso padre Gazzola profetizzò al giovane che la sua vita adulta sarebbe stata «una croce».
Divenuto prete, don Primo fu inviato come vicario cooperatore a Spinadesco (Cremona). Qui rimase circa un anno, venendo poi trasferito nella parrocchia natale, S. Maria del Boschetto. Poco dopo, però, nell’autunno del 1913 fu nominato professore di lettere nel ginnasio del seminario. Svolse tale funzione per un biennio, ma nell’agosto del 1914 fu inviato per un breve periodo in Svizzera, ad Arbon, come missionario dell’Opera Bonomelli per aiutare i lavoratori italiani che rientravano in patria dalla Germania in seguito all’inizio delle ostilità.
Era infatti scoppiata la Prima Guerra Mondiale e, nella primavera del 1915, si pose con forza il problema dell’atteggiamento italiano. Don Mazzolari si schierò in quel frangente tra gli interventisti democratici, così come altri giovani cattolici, tra i quali Eligio Cacciaguerra, animatore della Lega Democratica Cristiana e del giornale «L’Azione» di Cesena, a cui Mazzolari collaborò con diversi articoli. Si intendeva sostenere l’intervento militare italiano nella guerra al fine di eliminare per sempre le forme di militarismo simboleggiate dalla Germania e per contribuire ad instaurare un nuovo regime democratico e di collaborazione internazionale in tutta l’Europa. Don Primo possedeva inoltre un robusto senso patriottico, assorbito fin da bambino all’interno della sua famiglia.
In questi primi anni di ministero, il giovane prete entrò in amicizia con Sofia e Amilcare Vaggi a Milano. Tramite loro conobbe molti esponenti di un mondo che si prefiggeva di approfondire la propria fede, sognando una Chiesa più aperta al dialogo con i non credenti, oltre che con i fedeli delle altre confessioni cristiane. Tra loro Antonietta Giacomelli, Vittoria Fabrizi de’ Biani, Attilio Begey, don Brizio Casciola.
Gli anni della guerra
La guerra comportò però subito un atroce dolore per il giovane prete. Nel novembre 1915, infatti, morì sul Sabotino l’amatissimo fratello Peppino, il cui ricordo rimase sempre vivissimo in don Primo. Questi, inizialmente riformato dal servizio militare, fu riveduto e chiamato alle armi: fu così inserito nella Sanità militare e impiegato negli ospedali di Genova e poi di Cremona.
Il desiderio di compiere il proprio dovere stando accanto ai soldati mandati a combattere spinse però don Mazzolari a chiedere il trasferimento al fronte. Così nel 1918 fu destinato come cappellano militare a seguire le truppe italiane inviate sul fronte francese. Rimase nove mesi in Francia. Rientrato nel 1919 in Italia ebbe altri incarichi con il Regio Esercito, compreso quello di recuperare le salme dei caduti nella zona di San Donà di Piave e poi nell’alta valle dell’Isonzo L’esperienza bellica vissuta in prima persona contribuì anche a far nascere in lui i primi ripensamenti sulla legittimità della guerra, portandolo progressivamente a sviluppare l’idea che occorresse opporsi a essa.
Nel 1920 il prete cremonese trascorse sei mesi in Alta Slesia insieme alle truppe italiane inviate per mantenere l’ordine in una regione contesa tra la Germania e la neonata Polonia. Tutte le testimonianze concordano nel raccontare dell’impegno e della passione umana con cui don Primo seguì in questi vari frangenti i suoi soldati. In quelle terre egli poté toccare con mano i guasti provocati dall’eccessivo nazionalismo.
Parroco a Cicognara
Smobilitato nell’agosto 1920, don Mazzolari chiese al suo vescovo (mons. Giovanni Cazzani) di non tornare all’insegnamento in seminario, ma di essere destinato al lavoro pastorale tra la gente. Dall’ottobre 1920 al dicembre 1921 fu delegato vescovile nella parrocchia della Ss. Trinità di Bozzolo, un paese in provincia di Mantova, ma dipendente dalla diocesi di Cremona. Da qui fu trasferito come parroco nel vicino paese di Cicognara, a due passi dal fiume Po, dove rimase per un decennio, fino al luglio 1932. Da allora in poi don Primo si sarebbe dedicato per tutta la vita con passione e creatività alla cura pastorale delle comunità parrocchiali che gli vennero affidate, affiancando a questo ministero anche quello di predicatore, chiamato a parlare in moltissime provincie d’Italia, con una straordinaria capacità di intrattenere legami di amicizia, di vicinanza spirituale e materiale con centinaia di persone, vicine e lontane, donne e uomini di umili condizioni, intellettuali, importanti esponenti politici ed ecclesiali, credenti e non credenti. Nelle sue carte sono rimasti i tanti quaderni (“brogliassi”, li chiamava), dai quali si evince la sua cura nel preparare l’omelia domenicale, i corsi di catechesi per le ragazze o i giovani, i cicli di predicazione per gli adulti.
A Cicognara don Primo si fece le ossa come parroco, sperimentando iniziative, riflettendo, annotando idee e, soprattutto, cercando forme nuove per accostare tutti coloro che si erano ormai allontanati dalla Chiesa. Il paese, infatti, aveva una forte connotazione socialista. Don Mazzolari cercò in vario modo di valorizzare le tradizioni popolari contadine, come la festa del grano e dell’uva, ma non trascurò di commemorare i caduti in guerra e le ricorrenze patriottiche.
Durante l’inverno faceva la scuola serale per i contadini, mentre in piena estate organizzava una colonia fluviale per i bambini del paese, con lo scopo di farli divertire e di sorvegliarli (gli annegamenti nel Po erano frequenti). In quegli anni ebbe anche modo di conoscere e frequentare la scrittrice Grazia Deledda, futuro Premio Nobel, il cui marito era appunto nativo di Cicognara.
L’avvento del fascismo lo vide fin dall’inizio diffidente e preoccupato, senza celare la propria intima opposizione. Già nel 1922 egli scrisse, a proposito delle simpatie di certi cattolici verso il nascente regime, che «il paganesimo ritorna e ci fa la carezza e pochi ne sentono vergogna». Nel novembre 1925 rifiutò di cantare solennemente il Te Deum dopo che era stato sventato un complotto per attentare alla vita di Mussolini.
Anche nel 1929 si differenziò dall’atteggiamento entusiastico di tanti vescovi e preti, non andando a votare al plebiscito indetto da Mussolini dopo la firma dei Patti Lateranensi. Rifiutava intanto l’esaltazione acritica della guerra e del militarismo e respingeva ogni spirito settario e partigiano.
Così, pur evitando di prendere posizioni di aperta rottura, don Primo fu presto considerato un nemico agli occhi dei fascisti e anzi un vero e proprio ostacolo alla ‘fascistizzazione’ di Cicognara. La notte del primo agosto 1931 lo chiamarono alla finestra e spararono verso di lui tre colpi di rivoltella, che fortunatamente non lo colpirono.
Parroco a Bozzolo
Nel 1932 don Primo fu trasferito a Bozzolo dove gli fu chiesto di gestire la fusione delle due parrocchie del paese. Nell’occasione egli scrisse un piccolo opuscolo, Il mio parroco, per salutare i suoi parrocchiani, vecchi e nuovi. A Bozzolo don Mazzolari iniziò poi a scrivere in modo regolare, così che gli anni Trenta furono per lui molto ricchi di opere. Nei suoi libri, egli tendeva a superare l’idea della Chiesa come ‘società perfetta’ e si confrontava onestamente con le debolezze, le inadempienze e i limiti insiti nella stessa Chiesa. A suo parere ciò era necessario per poter finalmente presentare il messaggio evangelico anche ai ‘lontani’, a coloro cioè che si sentivano distanti dalla Chiesa o la avversavano per diverse ragioni: politiche, culturali, morali, o magari proprio a causa dei peccati dei cristiani e degli atteggiamenti non evangelici della Chiesa. Negli scritti di don Mazzolari era inoltre presente l’idea che la società italiana fosse da rifondare completamente sul piano morale e culturale, dando maggiore spazio alla giustizia, alla solidarietà con i poveri, alla fratellanza. Idee simili lo costrinsero inevitabilmente a fare i conti con la censura ecclesiastica e con quella fascista.
Nel 1934 don Mazzolari pubblicò La più bella avventura, basata sulla parabola del figliuol prodigo, ma questo testo fu condannato l’anno dopo dal Sant’Uffizio, che giudicò «erroneo» il libro e ne impose il ritiro dal commercio. L’autore, infatti, pur contestando il comportamento del prodigo, se la prendeva con la pigrizia del figlio maggiore (nel quale andava riconosciuta la Chiesa), che nulla aveva fatto per cercare di salvare il fratello. Ubbidiente, don Primo si sottomise. Il Sant’Uffizio non spiegò al povero parroco quali fossero le pagine del libro giudicate erronee: si mosse forse su denuncia di qualche cremonese, scandalizzato dal fatto che ambienti protestanti avessero elogiato lo scritto mazzolariano.
Don Primo tuttavia non si scoraggiò. Nel 1937 e 1938 apparvero così altri suoi testi, come Lettera sulla parrocchia, Invito alla discussione, Il samaritano, I lontani, Tra l’argine e il bosco. Quest’ultimo era una raccolta di articoli e scritti vari, da cui emergeva la concezione della parrocchia che don Mazzolari aveva, ma anche la sua capacità di guardare la natura e la realtà della vita di campagna. Nel 1939 fu invece pubblicata La via crucis del povero.
Le opere successive finirono però ancora sotto la scure della censura. Le autorità fascista censurarono infatti nel 1941 Tempo di credere, ritenuto un libro non conforme allo ‘spirito del tempo’, quello cioè di un’Italia in guerra. Gli amici di don Primo riuscirono a fare circolare clandestinamente il testo. Nel 1943 tornò invece a farsi sentire il Sant’Uffizio che biasimò l’opera Impegno con Cristo, criticando il modo di esprimersi dall’autore.
Guerra e Resistenza
Alla caduta del fascismo (25 luglio 1943) e all’annuncio dell’armistizio (8 settembre) si aprì la fase più drammatica della storia italiana contemporanea, con la spaccatura del Paese, l’occupazione tedesca, la nascita della Resistenza e subito dopo della Repubblica Sociale Italiana. Don Primo si impegnò a creare contatti con vari ambienti e personalità cattoliche in vista del domani, particolarmente con il Movimento Guelfo d’Azione, il gruppo antifascista milanese fondato da Piero Malvestiti nel 1928, che dopo la scarcerazione dei suoi principali esponenti era tornato a cospirare. Ebbe altresì modo di sostenere le iniziative di chi operava in zona per il salvataggio di alcune famiglie ebree. Strinse inoltre sempre più rapporti con la Resistenza e con le “Fiamme Verdi”, così che il suo nome – già inviso da anni ai fascisti – circolò sempre più nelle liste di coloro che erano giudicati nemici del regime di Salò.
Nel febbraio 1944 don Mazzolari fu chiamato una prima volta in questura a Cremona per accertamenti; seguì in luglio un vero e proprio arresto da parte del Comando tedesco di Mantova. Liberato e richiesto di restare a disposizione, preferì passare alla clandestinità, nascondendosi a Gambara, in provincia di Brescia. Lasciò così per qualche tempo Bozzolo, ritornandovi poi di nascosto. Dovette infatti vivere per alcuni mesi completamente segregato, all’insaputa di tutti, al piano superiore della sua stessa casa e solo dopo la Liberazione poté uscire allo scoperto. Testimonianza di quel tempo sono i libri Diario di una primavera e Rivoluzione Cristiana, pubblicati però solo dopo la sua morte.
Il dopoguerra
L’impegno per l’evangelizzazione, la pacificazione, la costruzione di una nuova società più giusta e libera costituirono i cardini dell’impegno di don Mazzolari dal 1945 in poi. Figlio della Chiesa del suo tempo, egli era convinto che solo il cristianesimo potesse costituire un rimedio ai mali del mondo e si fece portatore così dell’idea di una vera e propria ‘rivoluzione cristiana’. I cristiani dovevano essere autentica guida della società, a patto di rinnovarsi completamente nella mentalità e nei comportamenti. Don Primo non perse naturalmente di vista il compito principale della Chiesa, quello dell’annuncio evangelico. Con Il compagno Cristo. Vangelo del reduce (1945) cercò quindi di rivolgersi anzitutto a coloro che tornavano dal fronte o dalla prigionia, per additare loro la via tracciata da Gesù Cristo. Scrisse in quegli anni molti articoli, collaborando con diversi giornali diocesani e politici, come «La Vita Cattolica» di Cremona, «L’Eco di Bergamo», «Il Nuovo Cittadino» di Genova, «L’Italia» di Milano, «Il Popolo di Mantova», «Democrazia», «Il Popolo».
Continuò a interessarsi dei ‘lontani’, particolarmente dei comunisti. La sua critica del comunismo fu sempre molto dura, come dimostrò il dibattito pubblico con un altro celebre cremonese, Guido Miglioli, ex organizzatore sindacale cattolico ed ex deputato del Partito Popolare, che era approdato alla collaborazione stretta con il Partito Comunista. In ogni caso, come ebbe a dire nel 1949 (l’anno della scomunica vaticana verso i comunisti), lo slogan di don Mazzolari era: «Combatto il comunismo, amo i comunisti».
Dopo le decisive elezioni del 1948, nelle quali appoggiò la DC impegnandosi con grande vigore nella campagna elettorale, don Primo iniziò subito ad ammonire i parlamentari di quel partito, tra i quali aveva molti amici, invitandoli alla coerenza e all’impegno. Un suo articolo portava per esempio un titolo chiarissimo: Deputati e senatori vi hanno fatto i poveri.
«Adesso»
Tante speranze di cambiamento andarono presto deluse. Don Mazzolari si rese conto di dover creare un movimento di opinione più vasto e si dedicò allora anima e corpo al progetto di un giornale di battaglia. Il 15 gennaio 1949 uscì il primo numero del quindicinale «Adesso», nel pieno di una stagione in cui si moltiplicavano gli appelli cattolici verso la DC (l’anno dopo, nel 1950, Giorgio La Pira pubblicò il volume L’attesa della povera gente).
Nelle sue pagine il giornale volle toccare tutti i temi cari al suo fondatore: l’appello a un rinnovamento della Chiesa, la difesa dei poveri e la denuncia delle ingiustizie sociali, il dialogo con i ‘lontani’, il problema del comunismo, la promozione della pace in un’epoca di guerra fredda. Al giornale collaborarono molti laici e preti più o meno noti: don Lorenzo Bedeschi, padre Aldo Bergamaschi, Antonio Greppi, Artuto Chiodi, don Giovanni Barra, Franco Bernstein, padre Umberto Vivarelli, padre Nazareno Fabbretti, Giulio Vaggi e più tardi Mario V. Rossi.
Intanto don Primo stringeva rapporti sempre più stretti con le voci più libere e critiche del cattolicesimo italiano di quel tempo, dominato dal conformismo e dalla rigidezza nei confronti del mondo contemporaneo: fu così amico del fondatore di Nomadelfia don Zeno Saltini (pur criticandolo in alcuni frangenti), del poeta padre David Maria Turoldo, del sindaco fiorentino Giorgio La Pira, dello scrittore Luigi Santucci e di molti altri. Ebbe anche alcune occasioni di confronto con don Lorenzo Milani.
Il carattere innovativo e coraggioso di «Adesso» provocò ancora l’intervento delle autorità ecclesiastiche (alle quali pervenivano pure vere e proprie calunnie nei confronti di don Primo), così che nel febbraio del 1951 il giornale dovette cessare le pubblicazioni. In luglio arrivarono altre misure personali contro don Mazzolari (proibizione di predicare fuori diocesi senza il consenso dei vescovi interessati; divieto di pubblicare articoli senza preventiva revisione ecclesiastica). Si poté ripartire nel novembre dello stesso 1951, ma con la direzione di un laico, Giulio Vaggi. Nonostante la proibizione don Primo collaborò ancora, utilizzando spesso pseudonimi come quello di Stefano Bolli. Proprio alcuni interventi di ‘don Bolli’ sul tema della pace provocarono nuove indagini disciplinari. Nel 1950, infatti, si sviluppò un ampio dibattito sulla proposta del movimento dei Partigiani della Pace (a prevalenza comunista) di mettere al bando la bomba atomica e don Mazzolari (che pure aveva accettato l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico) si dichiarò disponibile al dialogo. Insomma, il giornale continuò a vivere pericolosamente. Il 28 giugno 1954 don Primo ricevette il divieto di predicare «extra suam paroeciam», oltre che «di scrivere e di dare delle interviste su materie sociali». La pena venne mitigata accettando di «riabilitarlo alla predicazione della Parola di Dio nell’ambito della diocesi» (27 gennaio 1955). Il 2 gennaio 1956 seguì la condanna delle dichiarazioni di Mazzolari apparse su «L’Espresso» circa l’unità politica dei cattolici francesi. La proibizione di scrivere o dare interviste su materie sociali e politiche fu ribadita il 24 gennaio seguente.
Nel frattempo, il parroco di Bozzolo, proprio nel 1955, aveva avanzato una denuncia nei confronti di Aler Bedogna, medico condotto del paese, di simpatie anticlericali, per parole offensive da lui pronunciate nei confronti della fede e della Chiesa: l’iter processuale si concluse con una condanna per vilipendio alla religione, anche se il caso amareggiò non poco il prete cremonese, per lo scandalo suscitato.
Gli ultimi anni
Usando sempre il suo caratteristico linguaggio, che puntava direttamente a suscitare l’emozione nel cuore, senza voler indugiare nell’analisi scientifica o sociologica, don Mazzolari pubblicò negli anni Cinquanta altre opere significative.
Nel 1952 uscì La pieve sull’argine, un ampio racconto fortemente autobiografico, che ripercorreva le vicende e le vicissitudini di un prete di campagna (don Stefano) negli anni del fascismo.
Nel 1955 apparve anonimo Tu non uccidere, che affrontava la questione della guerra. Qui Mazzolari riprendeva un suo scritto inedito del 1941, Risposta a un aviatore, in cui si era già posto il problema della liceità della guerra. In questo modo il parroco di Bozzolo approdava all’accettazione dell’obiezione di coscienza e pronunciava un durissimo atto di accusa contro tutte le guerre («La guerra non è soltanto una calamità, è un peccato», «Cristianamente e logicamente la guerra non si regge»).
Libri a parte, don Primo spendeva le sue ultime energie per affrontare temi nuovi e conoscere problemi sociali anche lontani: nel 1951 visitò il delta del Po, nel 1952 fece un viaggio in Sicilia, riportandone forti impressioni, e nel 1953 si recò in Sardegna. Tra 1956 e 1957 lavorò alla stesura di un grosso volume per ricordare le attività della Pontificia Opera di Assistenza durante la Seconda Guerra Mondiale, su incarico del suo presidente mons. Ferdinando Baldelli. Per diversi motivi, l’opera venne accantonata e vide la luce solo nel 1991 con il titolo La carità del papa. Riedito in edizione critica nel 2024, essa ha ripreso il titolo originariamente pensato da Mazzolari: La carità ha vinto la guerra.
Uscì invece regolarmente nel 1957 La parrocchia, che riprendeva e aggiornava la Lettera sulla parrocchia, pubblicata vent’anni prima. In entrambi i testi, l’autore si interrogava sulle trasformazioni della parrocchia, sui rischi dell’esteriorità e delle spese superflue. Rifletteva inoltre sul ruolo nella Chiesa del laico, che andava valorizzato e non ridotto a un pallido duplicato del prete.
Nella Chiesa italiana il nome di Mazzolari continuava intanto a dividere: alle prese di posizione ufficiali, che in pratica lo proscrivevano e lo volevano rinchiudere nella sua Bozzolo, si contrapponevano i tanti amici, ammiratori, discepoli di ogni tipo che si riconoscevano nelle sue battaglie e diffondevano le sue idee in tutta Italia. Egli rimaneva coerente al suo proposito di ‘ubbidire in piedi’, sottomettendosi sempre ai suoi superiori, ma tutelando la propria dignità e la coerenza del proprio sentire.
Proprio alla fine della sua vita cominciò a venire qualche gesto significativo di distensione nei suoi confronti. Nel novembre del 1957 l’arcivescovo di Milano mons. Montini (il futuro papa Paolo VI) lo chiamò a predicare alla Missione di Milano, una celebre iniziativa straordinaria di predicazioni e interventi pastorali. Sempre in quell’anno il parroco di Bozzolo scrisse Anche i preti sanno morire, per commemorare i sacerdoti italiani uccisi tra la fine del secondo conflitto mondiale e il dopoguerra, un’iniziativa voluta dal parroco di San Martino Piccolo, vicino a Correggio, don Emanuele Rabitti, il quale coinvolse anche l’Azione Cattolica Italiana e l’episcopato nazionale in un apposito Comitato, che avrebbe dovuto erigere la via crucis commemorativa dei presbiteri morti.
Nel febbraio 1959, infine, il nuovo papa, Giovanni XXIII, proprio per omaggiare glia autori dell’iniziativa reggiana, lo ricevette in udienza in Vaticano insieme a un gruppo di pellegrini, lasciando in don Primo un’intensa emozione.
Ormai però la salute del parroco di Bozzolo era minata e logorata. Don Primo Mazzolari morì infatti poco tempo dopo, il 12 aprile 1959. Anni più tardi, Paolo VI dirà di lui: «Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro. Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. Questo è il destino dei profeti».
Conosciuto come il parroco di Bozzolo, fu una delle più significative figure del cattolicesimo italiano nella prima metà del Novecento. Il suo pensiero anticipò e contribuì a far maturare alcune delle istanze dottrinarie e pastorali del Concilio Vaticano II e dello stesso papa Francesco (in particolare relativamente alla “Chiesa dei poveri”, alla libertà religiosa, al pluralismo, al “dialogo coi lontani”, alla distinzione tra errore ed erranti), tanto da venire definito “profetico”.