Amare i poveri
La nostra grande colpa come cristiani non è che dopo duemila anni ci siano ancora dei poveri, ma che sia umiliante e vergognoso fare il povero in terra cristiana, e che qualche forma della nostra carità ne abbia ribadito la vergogna. Metterli davanti, ai primi posti, una volta tanto: potrebbe anche essere una messa in scena.
Mi pare che ci fosse un giorno dell’anno in cui gli stessi schiavi venivano serviti a tavola dai padroni. Ma il giorno appresso si era da capo. Gesù li mette davanti; ma c’è anche lui coi poveri, povero come tutti e di più. Egli non è uno spettatore: fa il povero, è il Povero. E l’onore e la dignità gliel’ha confermata al povero in questa maniera: non genericamente, alla povertà, ma a ciascuno, poiché egli è in ciascuno che ha fame e sete, che è senza casa e senza vestito, malato e prigioniero… come in un ostensorio.
L’ostensorio viene portato dal sacerdote più in alto in gerarchia. Il povero che porta l’ostensorio di Cristo non è più l’ultimo, ma il primo; e allora lo si mette a tavola e si è felici di servirlo, perché da questo servizio dipende la nostra salvezza.
“Se ci vuol tanto bene, a noi poveri, perché non ci fa tutti ricchi?”.
Ricchi! E diciamo questa magica parola, come se dicessimo: felici!
Se la ricchezza fosse sinonimo di felicità, avremmo ragione di dire a Cristo: “Che ne facciamo di un onore e di una dignità che non rendono?”.
Ma non è così. E dell’illusione che ci manca, ci compensa col metterci al primo posto ovunque, in chiesa e in paradiso. E “perché non veniamo meno lungo la via”, dice agli altri, che si sono fatti padroni dei beni di tutti, che non li possono tenere o che li possono tenere solo al patto che siano di tutti e che li amministrino come fa la mamma, che prima serve i figliuoli e, se n’avanza, quel poco che sopravanza, se lo tiene. Il di più è per i figliuoli, lo dà ai figliuoli.
Non so se questo è il significato comune della parola del Signore: “Il di più datelo ai poveri”. So però che quando nel nostro cuore entra un grande amore, l’ultimo posto è il nostro, e la misura “non misurata, scossa, sovrabbondante” va a finire dove pure il nostro cuore riposa. Gesù, con noi poveri, ha fatto così: i santi hanno fatto così.
Chi ama Cristo nei poveri non conosce certe difficoltà esegetiche, che sono piuttosto del cuore che del linguaggio. Quando il cuore non vuole capire, allora ci si fa precedere dalla ragione, che assai di rado capisce le ragioni che solo il cuore può capire.
Il compagno cristo [1945], Edizioni Dehoniane, Bologna 1977
La parola ai poveri
Ci sono davvero i poveri? La stessa impressione di quando mi chiedono se Dio c’è. Subito vogliono sapere: chi è? dov’è? cosa fa? I poveri sono “i figli di Dio”. Tra i poveri e Dio c’è una stretta somiglianza e un continuo incontro. Essi vivono così particolarmente legati a lui che nella mente e nel cuore dell’uomo Dio e il povero seguono uguali alternative di luce e di oscurità, di riconoscimento e di negazione, di avversione e d’amore. E per questo che gli atti del povero quasi istintivamente si riferiscono a Dio. Non ha detto Gesù che saremo giudicati secondo che avremo o no sfamato, dissetato, consolato lui stesso sotto le vesti del povero?
Per conoscere i poveri non basta la statistica. Anche la politica, che sembra aver dato coscienza ai poveri della loro forza, dei loro diritti, della possibilità di riacquistare la libertà perduta, il più delle volte, in realtà, li tradisce. I poveri, o sono il “sottoproletariato” di cui la strategia rivoluzionaria si serve come forza d’urto e di rottura, o l’”oggetto” di adescamento dei conservatori per rompere l’unità popolare.
Non basta neppure l’amore per conoscere i poveri: neppure l’amore di chi si mette generosamente e concretamente a loro disposizione, pagando di persona, e non con le parole e con i sacrifici degli altri, come troppo spesso fanno i politici. Io credo che anche questa forma di conoscenza sia incompleta e molte volte illusoria. Perché è impossibile superare un diaframma che realmente esiste, di capire cioè che cosa sia dover essere povero senza possibilità di elezione e di uscita.
I poveri sono scomodi, ingombranti, suscitano ripulsione intimidiscono. È facile dire una parola gentile a un uomo della nostra con dizione. Si sa o si può prevedere fino a che punto essa viene compresa. Ma non si sa mai che cosa il povero capisce e che cosa non capisce. È difficile misurare la profondità del suo dolore e la superficialità del suo piacere. Per conoscere veramente i poveri, per parlarne con competenza, bisognerebbe conoscere il mistero di Dio, che li ha chiamati “beati” riservando loro il suo regno.
Erode ha paura di Gesù che ha per palazzo una stalla e per culla una greppia. Bisogna che il povero non sia! E invece il povero vien fuori dalla nostra stessa miseria: come Gesù. Il povero è Gesù. Se non ci sono più poveri, non c’è neanche Gesù. Se vedo me stesso non posso non vedere il povero: se vedo Gesù non posso non vedere il povero.
Le vertigini del benestare prendono dapprima gli occhi: si ha bisogno di non vedere. Chi ha poca carità vede pochi poveri: chi ha molta carità vede molti poveri. Che strana virtù la carità! Moltiplica i poveri per la gioia di amare i fratelli, per la gioia di perdere la propria vita nei fratelli. E non sbaglia la carità, non fantastica: vede giusto, sempre. L’occhio della carità è l’unico che vede giusto. “Signore, quando mai ti vedemmo affamato, assetato, senza tetto, ignudo o in prigione?” (Matteo, XXV, 44).
Dio, chi è? Prima importa sapere se Dio c’è. I poveri, chi sono? Prima importa sapere se ci sono. Non mette conto ch’io spieghi chi sono i poveri, se non ci siamo ancora accorti che i poveri ci sono, e non lontano da noi. Pare assai comodo non vedere i poveri. Quella dei poveri, come quella di Dio, è una presenza scomoda. Sarebbe meglio che Dio non fosse; sarebbe meglio che i poveri non fossero: poiché se Dio c’è, la mia vita non può essere la vita che conduco; se i poveri ci sono, la mia vita non può essere la vita che conduco.
Sono parecchie le cose che non vorremmo che fossero. Ne nomino alcune, le più scomode, ma le più certe, purtroppo: la morte, il dolore, i poveri, Dio. Non vogliamo vedere Dio: non vogliamo vedere la morte: non vogliamo vedere il dolore: non vogliamo vedere i poveri. E sono invece le realtà più presenti; direi le presenze che non possiamo non vedere e non ricordare. Fino a quando riusciremo a tenere chiusi gli occhi davanti a queste certezze, che l’uomo può anche non voler vedere? Chiudo gli occhi un giorno: chiudo il cuore un giorno: chiudo la ragione un giorno, un anno, molti anni: poi, non ne posso più, e vedo Dio, la morte, il dolore, i poveri: proprio chi non vorrei vedere. Su ogni strada c’è una svolta: all’improvviso, ecco che dal mio intimo stesso risale la certezza che Dio c’è, e il dolore m’attanaglia, e la morte mi viene vicina, e il povero m’appare […].
È incredibile che il più buono degli uomini, il più mansueto, colui che da secoli porta la croce di tutti, faccia paura! Eppure, molti hanno paura del povero, come molti farisei avevano paura di Gesù, e non solo quando predicava, ma anche quando, condannato a morte, saliva il Calvario. Non fa paura il povero, non fa paura la voce di giustizia che Dio fa sua, fa paura il numero dei poveri.
Io non ho mai contato i poveri, perché i poveri non si possono contare: i poveri si abbracciano, non si contano. Eppure, c’è chi tiene la statistica dei poveri e ne ha paura: paura di una pazienza che si può anche stancare, paura di un silenzio che potrebbe diventare un urlo, paura di un lamento che potrebbe diventare un canto, paura dei loro stracci che potrebbero farsi bandiera, paura dei loro arnesi che potrebbero farsi barricata.
Sarebbe così facile andare incontro al povero! Ci vuoi così poco a dargli speranza e fiducia! Invece, la paura non ha mai suggerito la strada giusta. Ieri la paura pagò i manganellatori: oggi non vorrei che foraggiasse i reazionari, invece d’incominciare finalmente un’opera di giustizia verso coloro che hanno diritto alla giustizia di tutti. Ma, dicono, c’è da perdere, oggi, a far lavorare. E chi vi ha detto che si debba sempre guadagnare quando diamo lavoro? Prima del guadagno, c’è l’uomo: prima del diritto al guadagno, c’è il diritto alla vita. Sta scritto: “Tu non uccidere”. il guadagno può farci omicidi: Giuda ha venduto il “sangue del giusto” per trenta denari.
L’economia ha le sue leggi, ma tutti hanno diritto di mangiare. Tutti siamo chiamati a dar da mangiare agli affamati su quello che abbiamo in tavola. Produrre per l’uomo: non per il guadagno di qualcuno. Abbiamo capovolto il pensiero di Dio e i conti non tornano neanche per chi guadagna, perché deve fare il negriero per guadagnare. Come lo fanno quasi tutti i padroni del mondo. Questa è la crociata da bandirsi, prima ancora di quella anticomunista.
Anche per questi, che non credono in Dio anche se fabbricano chiese, che tolgono a tanti giovani la gioia di avere una famiglia, che mettono sulla strada tante figliole, che rubano la speranza e rendono accettabile l’assurdo comunista, c’è la scomunica.
La paura fa anche dire: – Non sono mai contenti i poveri: diamo cinque, ed è come se non glieli avessimo dati: diamo dieci, e il volto non cambia. La ragione c’è, e non vi fa onore. Date cinque, e con la mano tenete il cuore chiuso: date dieci, e il cuore lo tenete ancora più chiuso. Perché teniamo il cuore chiuso con i poveri? Crediamo, forse, che essi abbiano soltanto bisogno di “aumenti”? La povertà non si paga: la povertà si ama.
Per questo motivo non raggiungeremo mai l’incontro lungo la strada delle concessioni. Fino a quando ci sarà una classe che può concedere, e una classe che può reclamare un diritto, non avremo mai il ponte. Qualcuno trova più comodo e redditizio distrarre e stordire il povero con dei divertimenti, onde fargli dimenticare che ha qualcosa da chiedere, una richiesta di giustizia da presentare. Per togliergli dignità, per togliere al povero la sua “eminente dignità”, lo si stordisce. I patrizi della decadenza avevano creato il “tribunum voluptatum” per sollazzare i poveri. Ho l’impressione che, oggi, molti, borghesi e no, si assumerebbero volentieri, direttamente o indirettamente, il poco nobile ufficio. I poveri che si divertono non fanno le barricate: i popoli che si abbrutiscono si possono comperare […].
Senza una conoscenza umana del povero, non si arriva alla conoscenza fraterna. l’uomo deve vedere l’uomo nel povero. Il “compagno” non basta, il “camerata” non basta, come non basta colui che è della nostra razza, della nostra classe, della nostra nazione.
Non disprezzo nessuna conoscenza e nessun vincolo, ma abbiamo troppo sofferto, e tuttora soffriamo, di questi limiti di umanità: abbiamo troppo sofferto per quello che è legato alle parole razza, nazione, casta, classe, per accoglierle come il momento della nostra conoscenza. Abbiamo bisogno di veder subito l’uomo, per non cadere di nuovo nella tentazione d’ipotecare la giustizia e di restringere il cuore. Vogliamo anzitutto una visione umana del povero, perché il povero non ha nazione, né classe, né razza, né partito: è l’uomo che domanda a tutti pietà e amore.
E quando dico voglio vedere l’uomo, non intendo l’uomo dei filosofi, che non m’interessa, come non m’interessa il dio dei filosofi. Intendo l’uomo reale, l’uomo vero, in carne e ossa: uno cioè che posso toccare. E quest’uomo che posso toccare e che chiede pietà sono io stesso. Povero è l’uomo, ogni uomo. Non per quello che non ha, ma per quello che è, per quello che non gli basta, e che lo fa mendicante ovunque, sia che tenda la mano, sia che la chiuda.
Il povero sono io, chi ha fame sono io, chi è senza scarpe sono io. Questa è la realtà: così è il vedere reale. Io sono il povero; ogni uomo è il povero!
La parola ai poveri, La Locusta, Vicenza 1960.